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(ITA) La mia vita
da zucchina
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lungometraggio in stop motion per Claude Barras
(ITA)
Nelle note di regia Claude Barras ha dichiarato “la chiave per entrare in questo universo restano gli occhi dei personaggi. I loro occhi enormi, spalancati sul mondo…”. Come non farsi rapire dalle palpebre pesanti, dalle occhiaie profonde e differentemente colorate per ciascun personaggio – lo spettro delle notti insonni, ma anche dei forti sogni ad occhi aperti – che ci restituiscono le rifrazioni cangianti della crescita e della vita! Anche le braccia destano attenzione, sproporzionatamente lunghe, a dirci forse della tensione verso abbracci lontani, manca(n)ti.
È questa infatti la storia di Icare e di altri ragazzini già segnati dal dolore, ma consci della possibilità di poter resistere e ritrovare se stessi. Bambini resilenti, capaci di instaurare nuovi legami, famiglie d’elezione.
I titoli di testa scandiscono il cielo sereno, per piombare piano nella camera tugurio di Icare, indugiando sui disegni di un Super-Papà che insegue galline, “le pollastrelle” rinfacciategli dalla madre, tra idealizzazione e franitendimento. Dinanzi al tradimento connotativo delle parole, i disegni saranno il linguaggio più autentico attraverso cui leggere la parabola di riscatto di Icare, dal punto di vista dei suoi 9 anni, dal suo far propria la realtà, per nn esserne succube.
Immediato, dunque, l’accento posto sulla insostenibile innocenza linguistica dell’infanzia di contro all’oppressione di amarezze che possono trafiggere a ogni età. Su tutte domina la questione affettiva – offensiva del soprannome “Zucchina”, con cui Icare è chiamato dalla madre depressa e alcolizzata. È l’illusione di un bene estremo, lo straccio di ricordo da trattenere con le unghie e con i denti, nonostante tutto. Le parole sono coltelli, questo ci dice anche il bullismo inferto da Simon ai suoi compagni, lame affilate, mirate sui nervi scoperti di ognuno.
Magistrale è la minuzia dei dettagli iconici nell’essenzialità stilizzata delle scenografie, da quello più irrilevante a quelli portanti l’intera narrazione. L’aquilone è per Icare il simulacro paterno, ma anche la tensione verso un altrove felice, sogno di affrancamento. All’inizio l‘aquilone è fatto librare nell’aria zavorrato ad una sedia in camera, alla tenaglia di quelle cupe mura domestiche, intrise di solitudine e abbandono. La traslazione di un percorso d’emancipazione d’urto, inizia quando l’aquilone è fatto sventolare dal finestrino dell’auto della polizia, tenuto stretto dalla mano di Icare… seguendo il vento del cambiamento e al primo risveglio nella casa–famiglia, l’aquilone è già alto in volo, ancor prima che Zucchina apra gli occhi. Altrettanto egregia la direzione della fotografia sui set – modellini realizzati in scala. L’illuminazione è bluastra in casa per i riverberi alienanti dello schermo televisivo sulle pareti in ombra e resta ancora contrastata da pochi fasci di luce nell’ufficio di polizia, ma man mano che Zucchina entra nelle stanze della casa–famiglia, la luce prende ad invadere gli spazi che condivide con nuove presenze, nuovi fari nella vita: amici, insegnanti, giovani amori. Simon, che indossa la maschera del bullo, impugna in verità la torcia, simbolicamente il coraggio, per stanare i fantasmi notturni di vecchi e nuovi sensi di colpa e prelude ad un’alba nuova per Icare e Camille, insieme. Camille, che è il nuovo “colpo di fulmine” (non più il cortocircuito tra adagio linguistico e oggettivo denotativo, ma risemantizzazione) che passa da un magnetico scambio di sguardi per redimere la sofferenza individuale con lacrime di felicità.