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(ITA) DEAR BASKETBALL
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L’addio di Kobe Bryant diventa un corto che punta agli Oscar
(ITA) In realtà, una prova simile in questa direzione artistica il disegnatore americano l’ha già sperimentata proprio negli ultimi due cortometraggi: Duet (dolcissimo, con movimenti di camera interni al disegno 2D davvero ben riusciti) e Nephtali. Glen, però, vuole creare un Kobe su carta che sia una sorta di Super Bryant, qualcosa di leggendario, ma senza macchiettizzarlo, senza superpoteri o mantelli (in verità usa quel bellissimo modo di dire inglese, “animated version of larger-than-life Bryant”). Già, ma come fare? Tutti hanno un’immagine di Kobe Bryant in testa. Il suo volto, il suo sguardo, le sue movenze. Come fare, quindi, per non tradire quell’icona sacra che molti hanno in mente? Qui, Keane, si ricorda di una frase che gli venne detta nei primi giorni di lavoro in Disney: “Don’t animate what a character is doing. Animate what he is thinking.” Disegnare la mente di Kobe, questa è la chiave. La sua determinazione e il suo pensiero diventano il punto centrale di Dear Basketball.
(ITA) Facile? Non esattamente. Soprattutto se il protagonista è uno che viene soprannominato “Black Mamba” ed è, altresì, famoso per la sua Mamba mentality, un misto di concentrazione, istinto sportivo-killer e ossessione per i dettagli.
Un film, si sa, è composto da tre parti: parole, immagini e musica. Bryant non sottovaluta nemmeno questo terzo aspetto: alza nuovamente il telefono e chiama il compositore John Williams. Un vero mostro sacro della musica per film (tra i tanti Star Wars, Jurassic Park, Harry Potter) che aderisce al progetto senza esitazioni, ancora una volta dopo aver scambiato poche parole con Kobe al telefono. A questo punto la squadra è fatta, il Dream Team è al completo, non resta che lavorare.
Da una parte Keane vorrebbe giocare tra Kobe e la Sinfonia n°9 di Beethoven in un misto frenetico di note, schiacciate e passaggi di palla tra le gambe. Dall’altra, però, il maestro Williams si incammina per una strada diversa e getta le basi per qualcosa di più intimo e delicato, nonché, rispetto a Beethoven, molto più semplice. Si prosegue su questa seconda strada. Glen, intanto, inizia a disegnare su un foglio la storia di un ragazzino che sogna di diventare campione. Poco originale, è vero, ma quanto riesce bene agli americani raccontare una storia di speranza e coraggio, una storia ispiratrice di qualcuno che parte dal nulla e arriva al tutto?
Il corto scorre su questa dicotomia tra Bryant campione dei Lakers e il piccolo Kobe che sogna dal letto della sua cameretta di diventare un cestista professionista tirando una palla fatta di panni da lavare. Ma la firma di Glen sta nel non dividere veramente questi due mondi, non li mette in sequenza cronologica, prima uno e poi l’altro. Al contrario, li sovrappone, senza mai veramente separarli. Il Bryant-bambino esiste sempre nel corpo del Bryant adulto (Pascoli docet, lo so, ma andateglielo a spiegare oltreoceano). Le parole di Bryant, che sembrano uscite da una sceneggiatura di Shonda Rhimes, sono ovviamente al centro del tutto: “Sono pronto a lasciarti andare – scrive Kobe parlando alla pallacanestro – in modo che entrambi possiamo assaporare ogni momento trascorso insieme. Quelli belli e quelli brutti. Ci siamo dati tutto”.
La morale è un evergreen: proteggi i tuoi sogni, continua a migliorarti, never give up, lavora duro, chiunque tu sia a qualunque età. La carica emotiva, esaltata dalle note di Williams, è incredibile. Un cortometraggio per tutti, quindi: bambini, ragazzi, adulti…e per lo stesso Kobe – dicevamo – che ha confessato di riguardarsi questo shortmovie ogni volta che ha una brutta giornata e che ha paura di “cosa farà da grande”, ora che il suo sogno si è quasi definitivamente chiuso, magari, chissà, proprio con un punto esclamativo a forma di Oscar.