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Speciale Wonder Woman

al cinema con
la regia di Patty Jenkis

“Benvenuti nella RINASCITA dell’Universo DC COMICS”, così apre il n. 1, 03/2017 del fumetto Wonder Woman, all’interno dell’iniziativa di rilancio dei paladini dell’Universo Dc.

Proclamazione quanto mai appropriata per la guerriera di Themyshira nell’anno dell’atteso debutto cinematografco. La ‘Rinascita’ stampata della più longeva supereroina, a quasi 75 anni dall’esordio, viene esplicitata dai testi (Greg Rucka) e dalle illustrazioni (M. Clark, S. Parson, L. Sharp) come profondo conflitto interiore, un ordito di flashback dalla mitologia ad oggi, che infestano i pensieri e la lotta contro il crimine. Una sfida metanarrativa che Wonder Woman – qui tratti marcati e fisicità massiccia – si autoimpone nel groviglio di integrazioni e omissioni, in cui la continuity DC Comics ha avvolto il personaggio. Infliggendo a se stessa il leggendario Lazo della Verità, Diana manda in frantumi lo specchio che riflette mille crossover di realtà, giurando vendetta verso gli “autori” di una memoria che non smette di contraddirsi: dopo aver vinto Ares, può dirsi lei stessa nuova divinità della guerra? Se la prima vittima della guerra è proprio la verità, quale “meraviglia” può ancora incarnare agli occhi altrui?

Wonder Woman appare per la prima volta nel 1941 sulle pagine dell’albo All star comics, ad opera di William Moulton Marston (psicologo teorico del femminismo, non a caso l’inventore della macchina delle verità) nell’intuizione (discutibile?) di valorizzare le donne, emulando Superman, neo-archetipo eroistico maschile. La versione primigenia vuole che la principessa delle Amazzoni dai natali divini, abbandoni l’isola Paradiso, per combattere i nazisti al fianco del suo amore Steave Trevor, pilota americano inspiegabilmente naufragato su quell’isola sconosciuta.

Tuttavia, la fama intramontabile si deve alla consacrazione del piccolo schermo, grazie alla serie Tv statunitense prodotta e trasmessa negli anni Settanta ed interpretata da Lynda Carter, volto dolce di Wonder Woman per antonomasia; quella telesiviva è una Diana Prince che fa dell’inesperienza della società umana il proprio camuffamento, per poter poi elargire, sempre con massima eleganza, saldi principi oltre che forza fisica a fin di bene. Solo qui e non altrove, si vedrà l’eroina trasformare gli abiti civili nel costume da combattimento, di rimando alla bandiera a stelle e strisce, ruotando su se stessa col sottofondo dell’omonimo jingle. A dominare la tensione d’approccio tra Diana e Trevor, mentre contrassegno di femminilità saranno gli stivali coi tacchi, dissimulati nei raccordi tra le scene d’azione con effetti speciali e le inquadrature da ferma.

Tra le rivisitazioni dell’ultimo decennio, fa capolino l’opera d’animazione del 2009 diretta da Lauren Montgomery per la Warner Bros. Animation.
Il cartoon, pervaso d’ironia macha con gag licenziose, si stempera nella neutralità di genere dei sentimenti d’amicizia e solidrietà. Diana/Wonder Woman è tratteggiata con fattezze e movenze sinuose (simile alle trasposizioni animate di Barbie) di contro però alla connotazione di un forte senso critico. Persino al mito non viene risparmiato un biasimo di stampo umanista: le amazzoni sono guerriere, ma anche donne che hanno rinunciato al bisogno sociale isolandosi, soprattutto hanno abdicato alla loro specifica essenza umana, la maternità.

E dunque finalmente il cinecomic DC 2017 per la regia di Patty Jenkis, imponente produzione di rado affidata ad una donna (ma in questo caso poteva essere altrimenti?). Patty Jenkis passa così senza soluzione di continuità da Monster (2003), messa in scena dello svilimento dis-umano della femminilità canonica (indimenticabile premio Oscar Charlize Theron) alla messa in scena mitizzante e sublimata dell’icona della donna – meraviglia di potenza e bellezza.

In entrambi i casi, esplosioni di cosmogonie d’amore. Il film, in parte prequel della saga “Justice League”, riprende la lotta diretta Diana Vs Ares (vezzosa l’estetica pittorica michelangiolesca nella sequenza – prologo sulla creazione della stirpe umana) ma amplificandola sul doppio binario della guerra tra gli uomini, eterodiretti dagli stessi dei. Il blockbuster, quasi per famiglie, adotta la soluzione narrativa dell’agnizione delle origini divine all’interno di una nuova cornice storica, la Prima Guerra Mondiale, a sua volta flashback dal presente contemporaneo. Diana rievoca l’infanzia edenica e di colpo gli orrori della guerra di trincea, sino agli albori delle armi chimiche di distruzione di massa. Nella contestualizzazione fantasticata, essenzialmente asservita alla CGI dei combattimenti spettacolarizzati al rallenty – autentico sconfinamento nella confezione videogame – Jenkis si concede anche commenti, di fatto non così scontati, come il riferimento al genocidio dei nativi d’america (le antiche vittime) per mano di questi (nuovi) buoni, gli inglesi, in guerra contro (i nuovi) cattivi, i tedeschi. Una Storia – gioco di ruolo. Dopo innumerevoli candidature nel corso degli anni, il nuovo volto di Wonder Woman è dell’interprete israeliana Gal Gadot. Suoi i lineamenti angelici che animano la commistione caratteriale di innocenza e incondizionato coraggio, mentre dal canto suo Trevor (Chris Pine) è per l’occasione uomo integerrimo e saggio, senza alcuna presunzione, votato ad una vera e propria funzione maieutica nella missione di Diana: scoprire la sua potenza e impiegarla per salvaguardare l’umanità da se stessa: per natura libera, sospesa sul baratro della scelta tra bene e male.