“La Tortue rouge”, nomination all’Oscar come miglior film di animazione 2017, già Premio Speciale Un Certain Regard a Cannes 2016, è l’esordio al lungometraggio dell’animatore olandese Michael Dudok De Witt, nonché (udite udite) la prima co-produzione internazionale dello storico Studio Ghibli, porta infatti la firma del maestro Isao Takahata per la consulenza artistica e addirittura segna il cambio del logo dello studio giapponese: Totoro su sfondo rosso, anziché celeste.
La partecipazione franco – belga s’è avvalsa della Prima Linea Production nella realizzazione dell’animazione a mano con acquerello e carboncino, cui si è aggiunta la CGI esclusivamente per la creazione di due cardini del film: la zattera e la tartaruga. Evidente anche l’influenza dello stile Ligne Claire, che ebbe in Belgio insigni precursori, connotato dal tratto nitido e netto e da figurazioni essenziali, volti stilizzati, calati in campi lunghi e panoramiche scenografiche, per converso, molto dettagliate.
Sia De Witt che Takahata sono poeti visuali, cantori della natura, della libertà e della volontà; creatori visionari di sogni – sconfinamenti di realtà. Ciascuno a suo modo ha affrontato i temi della genitorialità, del ciclo della vita tra separazioni e riabbracci ideali. Per certi versi, affini appaiono proprio “Padre e figlia” di De Witt (Oscar al miglior cortometraggio d’animazione 2001) e “La storia della principessa splendente” di Takahata (2013). Ma nel sodalizio de “La tortue rouge”, ad accomunarli si impone l’apoteosi del rapporto tra gli ambienti e i personaggi, persino il nesso acustico tra personaggi e suoni d’ambiente, restituisce una relazione in scala dal respiro epico, a realizzare, quasi in senso letterale, quanto definì lo storico Carlo Ginzburg sull’esclusività dell’ “emozione figurativa” cinematografica: “… questo annegare l’uomo nell’ambiente”. E “La tortue rouge” è decisamente fondata su questa emozione dovuta all’arretramento del campo inquadrato, al farsi piccolo piccolo dell’uomo nel paesaggio, al suo smarrirsi nel roboante, indecifrabile scoppio d’un acquazzone come nell’estemporaneo silenzio.
Un capolavoro che s’apre sul mare in tempesta. Un naufrago, pelle scura abiti bianchi, soccombe esile tra i cavalloni marini giganti, sino a scaraventarsi su di un’isola deserta. La sua statura sarà quasi sempre minuscola nel titanico paesaggio, fagocitante la figura umana e le sue corse, anche attraverso il colore, su tutti il verdeggiare supremo. Candidi orizzonti, sterminate distese d’acqua azzurro pastello fanno il paio con la fittissima foresta di bambù e l’ocra della spiaggia.
Nel suo statuto di film sonoro senza dialoghi (rarissime sono infatti le espressioni vocali: le urla di dolore e rabbia, manifestazioni di gioia) la colonna musicale diviene portante sulle corde di violini pizzicati in crescendo e percussioni come echi ancestrali. Il cielo notturno è un firmamento puntinato, statico, su scala di grigi, in cui solo il filiforme moto ondoso sulla riva dà lo stacco tra mare incolore e battigia, lì dove prenderà vita, più e più volte, il volo onirico e suo risveglio. Questo topos ghibliano si impreziosisce di virtuosismi formali nei raccordi delle pose dell’uomo dormiente e la sagoma dell’isola. Suggestione d’immedesimazione unica e in contraddizione col contraltare inversamente proporzionale di rappresentazione, che percepisce l’uomo tanto piccolo, quanto invece marca l’enfasi in dettaglio di millepiedi, granchi, ragni, formiche, lucertole, sino all’esaltazione della Tartaruga rossa. Si dipana senza sosta la lotta tra rassegnazione e tenacia, che dilania la mente e l’animo nella morsa di una natura avversa, simboleggiata dalla tartaruga che ripetute volte affonda la zattera. Eppure, quando la tartaruga giunge in spiaggia pare incontrare inerme la morte, pare quasi sacrificare la dimensione animale per poter ascendere, sotto il bagliore lunare, ad un nuovo stato fisico esistenziale. Il carapace si rompe mentre l’uomo vi dorme affianco, destandolo. Ora la tartaruga assume le sue proporzioni, la natura scende a pari e patti con l’uomo, pur conservando nella fluente chioma rossa la sua genesi trascendente. L’accettazione dell’essersi fatta dono, muta la sopravvivenza in convivenza, sancita dalla comunione del gesto di resa: come la donna restituisce al mare la carcassa delle vecchie sembianze, così il naufrago rilascia al mare l’ennesima zattera. È questa la ripresa del ciclo vitale, nell’abbraccio del grembo marino stellato. Anche lo spettatore, sopraffatto dall’eccelso lirismo e fascinazione, potrebbe non cedere alla razionalità di puntualizzare se si tratti o meno di un parto immaginifico del protagonista e abbandonarsi all’insorgere di questa sua salvifica cosmogonia (la famiglia) di difesa e rivalsa sul flashback di colpa congenita: la vendetta violenta contro la tartaruga. Giorni, notti, sogni e risvegli si susseguono sulla terraferma, ove sopraggiunge credibile la vecchiaia e, non a caso nel dormiveglia, la morte. La donna dalla chioma imbiancata può tornare alle acque, può tornare mitologica creatura, senza chiederci se l’anziano di fianco adagiato, abbia trascorso la vita intera lottando, invano, pur di riprendere il largo.