Sarà presentata lunedì 1 aprile nell’Illustrators Survival Corner della Bologna Children’s Bookfair, la guida illustrata alla sopravvivenza per illustratori curata dalla direzione Mimaster Illustrazione e edita da Corraini.
Una mappa per muoversi nel mare magnum del mestiere e un racconto del dietro le quinte della professione, tra copertine, albi illustrati, autoproduzione, contratti e appuntamenti internazionali. 56 pagine che raccolgono le domande più comuni e i dubbi professionali nati in dieci anni di formazione, provando a dare una risposta ai tanti “come” e “perché” di questo mestiere. Con i testi di Ivan Canu e Giacomo Benelli, i consigli di art director, editori e illustratori di fama internazionale come Matt Dorfman, Emiliano Ponzi, Riccardo Vecchio, Noma Bar, Katsumi Komagata, Beatrice Alemagna.
Direttamente dal capitolo dedicato a “Il Mestiere”, le parole di Ivan Canu, direttore Mimaster:
“Insegnate a questi ragazzi e a queste ragazze Fatti e niente altro”. (Teach these boys and girls nothing but Facts) C. Dickens, Tempi difficili
Sono dunque un illustratore e sono per lo più un risolutore di problemi. La figura dell’illustratore artista, chiuso nella sua casa a produrre capolavori nell’attesa messianica dell’editor ideale, è relegata ormai alla sfera delle casistiche o delle curiosità naif. L’illustrazione, intesa come pratica, è una libera professione legata certo alla qualità del proprio lavoro, ma molto ormai alla complessa capacità progettuale e di rapporti incrociati, che soprattutto in tempi di forte crisi dell’offerta diventano la discriminante. Come non bastasse, solo per l’ambito editoriale, l’illustratore è richiesto di progettualità articolate, spesso con competenze grafiche, di editing e di occhio per il marketing. È una professione complessa, radicata ormai nei social anche per la sua pubblicizzazione. La scelta artistica può essere ancora interessante, ma limitarsi ad essa è antistorico prima ancora che poco pratico.
Aggiorniamo l’indirizzario dei contatti e dei clienti ogni 3-4 mesi. Non solo, scriviamo al responsabile, cercando l’email diretta. Una delle ragioni per cui si va alle fiere e ai festival è per conoscere queste persone e scambiarsi i contatti. È una bella fatica, all’inizio, poi i risultati sono evidenti. Anche perché la segreteria di solito cestina o di rado – e non mi affiderei alla pura umana cortesia, che non è statisticamente affidabile – re-indirizza a chi di dovere. Per il resto, siano benedetti i social: a qualcosa davvero sono utili. Non ingrugniamoci se non riceviamo risposta subito o anche dopo giorni. Riproviamo, come nulla fosse, dopo un po’ di tempo: spesso si ricevono poi delle scuse per il ritardo. E si risponde di conseguenza, con il molto cortese e sempre efficace: lo capisco. Il motto: domandare è lecito, rispondere è cortesia, fa parte della tradizione dei pen friends, non del lavoro.
Se mi irrigidisco, il cliente se lo ricorda. I colleghi se ne ricordano. La memoria di un carattere difficile, è lunga quanto quella di un elefante, inutile dire: io sono uno schietto. Non è quella la parola che useranno per definirmi. Non è il mondo degli editori ladri, degli art director inefficienti, degli editor incompetenti, degli stampatori daltonici contro di me. Sono io il complicato e non nel senso di: carattere complesso, pieno di sfaccettature. Se non emetto la nota di pagamento alla fine di un lavoro, dopo aver chiesto conferma al cliente, come posso attendermi dopo 30 giorni di vedere ingrassare il conto?
Quando arriva una commissione chiediamo tutte le informazioni prima: cosa, come, perché, quando. E quanto. Di soldi si parla e pure molto. Chi non ha nulla da nascondere, mette la voce compenso nelle prime righe dell’email, perché sta domandandoci una disponibilità, quindi il fattore economico non è trascurabile. Anche e soprattutto ci si confronta fra colleghi, non è il terzo segreto di Fatima. A volte ci chiedono il preventivo, ma si usa pure domandare: che budget avete? Risparmiamo molto tempo, molti fastidi, le vere rogne. Ed è la cartina di tornasole della reciproca serietà. Se a noi viene chiesto un lavoro e alla richiesta di 1000 ci rispondono: troppo! Noi abbiamo solo 100, la risposta ovvia è: allora perché non dite subito: abbiamo 100, cosa possiamo fare con questo? Il tempo, anche in questo scambio di messaggi, è il primo atto del lavoro.
A essere corretti e limpidi, si consegna più d’una prova, soprattutto agli inizi, con clienti nuovi che non conoscono il nostro metodo di lavoro ma ci han selezionati magari da un portfolio on-line o guardando i nostri post su Instagram. È segno di stima, del lavoro e dell’occasione ricevuta, mostrare molta cura in queste fasi, flessibilità e pazienza, anche verso le comprensibili titubanze del cliente. Se l’art director ci fa modificare le prove non è un sadico, ma neppure noi dei masochisti: ci si mette d’accordo per email o per contratto sulla quantità di modifiche accettabili. Ultima ma non meno importante nota: se abbiamo realizzato una bozza che non ci convince, ma abbiamo poco tempo, siamo senza idee: non la mandiamo. Perché la solita legge di Murphy governa anche queste scelte: sarà probabilmente quella ad essere scelta, magari pure con convinzione e noi ci troveremmo a inghiottire l’amaro di un lavoro che non ci piacerà più fare. Meglio farsi un giro, due passi, distrarsi e cercare un’altra idea, quella sì che ci convinca.